sabato 14 marzo 2009

LA FABBRICA DEI PRETI: ULTIMO CAPITOLO

Conclusione
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Lettura personale
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Sono arrivato alla fine di questa mia rivisitazione della fabbrica dei preti. È chiaro che si tratta di una mia esperienza, di una mia visione, di una mia valutazione. Di più e altro non posso fare o dare. Dunque potrebbe trattarsi di una fatica inutile, di una introspezione dolorosa ma senza costrutto, perché troppo personale e di parte. In questo però sono aiutato da un fatto che è anche la disgrazia del seminario e di tutte le strutture della Chiesa: l’immutabilità. Così anche l’esperienza di uno può essere moltiplicata per 100 e per mille. Mi sono domandato tante volte la ragione per cui là dentro non cambiasse nulla di sostanziale. O perché non vogliono, come dice qualcuno, o perché non possono, come sembra più giusto. Perché la Chiesa è ossessionata dalla questione dell’autoconservazione, per paura di non reggere il confronto con i cambiamenti radicali e impietosi del mondo e di essere spazzata via dal turbine della modernità e della post modernità e della secolarizzazione galoppante, corrosiva. Non sa che, pensando soltanto a conservarsi, ha scelto la strada più dritta per la sparizione e l’auto consunzione. Questa immobilità della Chiesa fa in modo che il seminario del ‘900 sia poco differente da quelli del ‘700 e del ‘600 e che il seminario di Udine sia sullo stampo stesso di quelli di Trento, di Brescia e di Caltanissetta. Sicuramente sono più gli elementi di colleganza che quelli di differenziazione. Questo perché dipendono tutti dalla stessa struttura centralizzata che si rifà sempre alle stesse regole e principi. Così il mio seminario diventa il seminario della gran parte dei preti che sono ancora nelle parrocchie del Friuli e della maggior parte dei preti di tutti i tempi e di tutti i luoghi. E questo mi dà un po’ di coraggio e di speranze in più riguardo all’utilità del mio lavoro.
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Salvare la memoria per salvare la storia
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Ho scritto per rivisitare il luogo della mia (de)formazione clericale anche perché stiamo vivendo una accelerazione così grande e talmente generalizzata che si fa fatica a sapere dove ci si trova. Tanto più si fa fatica a mantenere la memoria del mondo da cui si proviene o ad individuare il sentiero che ci sta davanti. Mai come oggi la memoria è la salvezza della vita. Perdendo la memoria di un fatto, bello o brutto, fai sparire il fatto stesso, che non è più un fatto ma un nulla. E’ ciò che stanno tentando di fare da qualche parte della Germania con i campi di concentramento. Negarli per farli sparire dalla memoria e subito dopo anche dalla storia. Così non sono mai esistiti e si può tornare a tentare la stessa infausta e disgraziata avventura che disonora l’uomo, la terra e Dio. Per questo, diceva Primo Levi, devo scrivere. Perché verrà un momento e un tempo in cui io stesso dubiterò di avere vissuto tale esperienza e dunque dentro di me morirà alla parte più importante di me. Subito dopo la guerra, quando tornavano dal fronte o dalla prigionia i soldati rimanevano in piedi tutta la notte e tutto il giorno successivo a raccontare ciò che avevano vissuto. E tutti erano lì a far loro mille domande e loro a dare mille risposte. Dopo una settimana, la curiosità era calata e si poteva parlare di queste tragedie soltanto per un secondo, per non disturbare quelli di casa, soprattutto la gioventù, che aveva altri pensieri per la testa. Tanto più che la vita doveva andare avanti e non si poteva stare ogni sera a sentire quella e sempre quella. Dopo un anno, se il soldato, il deportato arrischiava di aprire di rubinetto dei ricordi, parlando dei suoi patimenti, e dei suoi compagni caduti, veniva sopraffatto e obbligato a tacere. Allora si ritirava in sé stesso, tentando solo ogni tanto qualche parola con quelli che avevano vissuto la stessa esperienza e patito la stessa tragedia. Con loro è morto il loro mondo e tanto dolore si è disperso nel fluire del tempo che passa.
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Rimozione generale
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La stessa cosa capita con il seminario. I corridoi sono deserti o vi passeggia altra gente, dal momento che è stato affittato. Ti avvicini ma non hai né la possibilità né la voglia di entrare. E anche se sbirci dentro, stenti e ritrovare nel libro della memoria tutta la gente che camminava, studiava, pregava, tribolava, e faceva tribolare. Così non torni più, non parli più, non pensi più. I preti sono diventati tutti più vecchi e demotivati e sono carichi di mille incombenze e poi non hanno voglia di parlare di cose tanto lontane, rimosse e sotterrate per sempre. Si è chiuso il seminario ma anche il discorso sul seminario. È sparita la struttura; è sparita la memoria; è sparito tutto. Dunque non è mai esistito.Se queste riflessioni-memorie-confessioni non giungeranno nelle mani di nessuno, non mi importa. Sono arrivato a un’età nella quale è permesso un sano egoismo. Ho scritto per me, per il gusto di fare luce su un luogo e un tempo importante della mia vita.
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Tutto è grazia
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L’anno scorso hanno fatto un convegno su Auschwitz e la domanda tremenda sulla bocca di tutti è stata: “Dov’era Dio?”. ma un rabbino ha rovesciato la questione e si è domandato: “Dov’era l’uomo?”. Non voglio chiudere il mio diario sul seminario in maniera così traumatica e chiaramente sproporzionata. Perché in seminario Dio c’era. Anche troppo e a volte a sproposito. Forse mancava l’uomo. A distanza di anni, con il cuore distaccato e l’anima in pace, preferisco finire con le parole del “Diario di un curato di campagna” di Georges Bernanos: “Tutto è grazia”.
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Basagliapenta, 29 giugno 1999- XXXIV di ordinazione e XVII di ministero a Basagliapenta.
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Pre Beline
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(Traduzione di Piero Villotta)