domenica 21 dicembre 2008

AI FRIULANI CHE CREDONO

Ai friulani che credono


SPUNTERÀ' PER LA CHIESA UN NUOVO GIORNO?

Incarnata come Cristo nella storia dell'uomo, la chiesa vive oggi in Friuli un momento particolarmente, ma bello ed importante. Si trova infatti in' una situazione unica, in cui, con l'aiuto di Dio, potrà fare una esperienza valida e nuova ed aprire una strada non solo per sè ma anche per quelle chiese che, con il passare del tempo, potranno trovarsi in una situazione analoga.
Per questo, come gruppo di preti e laici della diocesi, sentiamo la necessità di dare una nostra valutazione ed interpretazione dei fatti che stiamo vivendo perchè nella chiesa di Dio siamo tutti corresponsabili, a parità di diritti e doveri.
Con questo documento intendiamo offrire un aiuto a tutti gli uomini di buona volontà ed anche ai nostri superiori. In realtà sentiamo che i vescovi hanno le mani ed i piedi legati, sia a causa del centralismo romano, sia per la loro paura della pubblica opinione, sia soprattutto a causa di quel castello ecclesiastico che l'autorità si è costruita lungo i secoli per dominare e che ora li tiene prigionieri. Si compie così la parola del salmo: "Cade nella fossa che ha fatto" (Sal 7,16).
Per questo, da fratelli, diciamo con estrema franchezza ciò che pensiamo; non crediamo con questo di far loro del male, ma siamo anzi convinti di dar loro una mano e di far loro del bene.

UN NUOVO VOLTO DELLA CHIESA

Guardando i segni dei tempi e dei luoghi, pensiamo anzitutto che sia giunto il momento di dare risposte nuove alle nuove situazioni. Abbiamo ben presenti le parole di Cristo: "Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perchè il rattoppo squarcia il vestito e si fa uno strappo peggiore. Nè si mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l'uno e gli altri si conservano" (Mt 9, 16- 17). Questo brano di Vangelo, a nostro avviso, non è stato recepito interamente dal Sinodo diocesano e soprattutto dal nuovo piano di distribuzione del clero, perchè entrambi danno più di una volta risposte sorpassate ai problemi dell'oggi.
Siamo convinti che un volto di chiesa, difeso dall'autorità ad ogni costo, è destinato a scomparire. Infatti nella sana mentalità del popolo di Dio non ha più alcun peso la religione della legge, della struttura, del tempio, del potere, dei partiti, della efficienza, del dominio sulle persone. E questo lo consideriamo nettamente positivo.
Non si tratta di fondare un'altra chiesa, ma di rischiare una nuova lettura della chiesa di Cristo; non si tratta di compiere miracoli, ma di offire segni di libertà e di amore nel cercare la strada dello Spirito e del popolo. Una chiesa di popolo e di Vangelo, di ultimi, di servizio del mondo, dove i valori umani diventano religione; una chiesa con il volto umano, semplice, libero, divino di Gesù Cristo; non fatta sul modello e ad imitazione dei potenti di questo mondo ma alternativa, e che, mescolandosi ai piccoli, sa vedere e conservare gelosamente ciò che l'Eterno Padre semina senza parsimonia anche al giorno d'oggi.
La struttura ecclesiastica deve demitizzare la sua organizzazione e smettere una buona volta di lavorare per la propria autoconservazione. Deve superare la legge che conduce al peccato e la smania di essere a posto con gli organigrammi ed i quadri. È preferibile perdere tutto questo anzichè perdere il Vangelo e la gente.

LA DISTRIBUZIONE DEL CLERO

Dietro al piano regolatore diocesano, che prevede per un prete un numero sempre più grande di paesi, non riusciamo a vedere le coordinate teologiche e pastorali che hanno suggerito questo determinato tipo di scelte.
Il Vangelo, il rispetto delle persone e della dignità dei paesi richiedono almeno questo: rifondare un modo di fare il prete che sia anche umano.
A due secoli dalla rivoluzione francese, anche il prete va rispettato come persona e non può essere sacrificato all'efficientismo della struttura.
Da parte nostra ci impegniamo, quando arriverà il nostro turno, a non accettare la responsabilità di un nuovo paese solo per carenza di preti o per questione di semplice obbedienza. Cercheremo di valutare la situazione per rispondere secondo coscienza, e non solo secondo criteri organizzativi, alla domanda che ci verrà fatta, giungendo, se lo riterremo opportuno, all'obiezione di coscienza. E questo per aiutarci, nella comune responsabilità, a studiare e a trovare nuove strade.

IL FONDAMENTO DELLA CORRETTA SPIRITUALITÀ DEL PASTORE

Crediamo che la pastorale consista. nei nostri paesi, in un rapporto umano fra il prete portatore del mistero della sapienza di Dio e la vita carica di problemi della gente.
Il prete è nel paese l'uomo della amicizia umana e della sapienza divina.
Per questo riteniamo umiliante, errata e dannosa la legge che prevede il cambiamento di parrocchia ogni nove anni.
La pastorale non è solo o soprattutto cultura teologica, scuola di catechesi e sacramentalizzazione, ma consiste prima di tutto, per un prete o operatore pastorale, nell'avere con la gente l'animo di Cristo.
Per un prete che è preso da Cristo, tutto diventa secondario: le leggi, i sinodi, le prescrizioni e le opere, perchè per lui è prioritario avere gli amori e le libertà di fondo di Cristo e di essere in sintonia con Lui e con la gente.
Questo fatto, che Cristo e la gente vengono prima della efficienza e della istituzione, è il fondamento della corretta spiritualità del pastore.

FIDUCIA NELLA GENTE

Ogni comunità di paese è chiesa; ogni comunità ha al suo interno lo Spirito che l'anima e che le dà, con la parola di Dio, i doni ed i carismi per essere popolo di Dio e sacramento e segno di salvezza nella vita odierna. Pertanto:
Vogliamo prima di tutto rispettare il paese e la gente, camminare insieme, senza mettere il paese nè nelle mani dei
movimenti, nè nelle mani degli estranei e dei forestieri, nè nelle mani dei nuovi catechisti che vengono sfornati dal centro.
Vogliamo mettere al centro della nostra attenzione la gente, accompagnandola con fiducia, in modo che il nuovo volto che la chiesa prenderà, quando piacerà a Dio, non sarà quello di una controriforma imposta dall'alto, ma quello che la gente sente più connaturale, come quelle chiesette che la gente sente proprie perché costruite con il suo sudore e non con il contributo del dopo terremoto.
Chiediamo che là diocesi studi, per i paesi senza prete, delle soluzioni complementari ed alternative, senza ammazzare di superlavoro e di disperazione i pochi preti rimasti.
Far girare continuamente un prete per più paesi non risolve assolutamente nulla, ed impedisce alla gente di maturare.
La diocesi valorizzi ed aiuti i preti che tentano nuove esperienze; rinunci ad uno stampo unico standardizzato per trovare le soluzioni più opportune caso per caso ed in modi diversi e differenziati.
Soprattutto abbia fiducia nella gente e le consegni la parola di Dio, la Bibbia, e la parola di Dio diventi la forza che rinnoverà la comunità stessa.

LA SCELTA PREFERENZIALE DEI PAESI PICCOLI

I paesi piccoli devono essere tenuti in palmo di mano, sia per la raccomandazione di Gesù di mettere al primo posto gli ultimi, sia per i valori che ancora custodiscono (in particolare i rapporti umani, condizione prima ed indispensabile per parlare di comunità cristiana), sia perchè è al loro interno che si potranno fare esperienze di una nuova pastorale e di comunità cristiane differenziate.
Un piano pastorale che parta dagli ultimi non può, in Friuli, non mettere in primo piano i paesi piccoli, per servirli meglio. In Friuli la scelta preferenziale dei poveri diventa la scelta preferenziale dei paesi piccoli.
Non vorremmo che, in nome di una logica mai messa in discussione, si continuasse a pensare che, "per addobbare l'altar maggiore di un duomo è lecito impoverire qualsiasi altro altare"; meno ancora quando, come nel nostro caso, non si tratta di altari ma di comunità.
Abbiamo tanto bisogno, come chiesa, di metterci sulla strada della semplicità: nei discorsi, nella liturgia, nei segni, nel catechismo, nella scelta dei responsabili, nei rapporti con la gente, e questo può venirci solo da una conversione ai "semplici" del Vangelo, ai piccoli dei paesi.
Si tenga conto di tutto ciò che di valido un paese racchiude, nella fiducia che ogni comunità possa riuscire ad esprimere i propri responsabili.

PRETI NUOVI - COMUNITÀ NUOVE

Nella diocesi ogni parroco presenti quelle persone che egli ritiene adatte, per inclinazione e capacità, a fare il prete. Oggi abbiamo tanta gente preparata come istruzione, impegnata come lavoro, realizzata come famiglia. Si tratta di trovare il modo di formarli sui fondamenti della dottrina cristiana, di allenarli alla predicazione ed al contatto con la gente, di dar loro !'incarico ufficiale, di farli lavorare, di consegnar loro una chiesa, di metterli assieme perchè imparino a conoscersi e ad amarsi ... e poi farli preti.
Si metta fine ad una mentalità che confonde il prete con un determinato modello di prete: lo Spirito Santo non si è fermato al concilio di Elvira (a. 300 c.).
Accanto alla formazione del prete celibe, si incominci a pensare ai giovani che desiderano diventare preti con una loro famiglia.
Dare responsabilità in diocesi ai preti che si sono sposati e che desiderano tornare ad esercitare il ministero.
Viviamo in tempi in cui ogni occasione persa ed ogni briciola sprecata sono un delitto contro lo Spirito Santo.


LA CHIESA FRIULANA PUÒ AVERE UN FUTURO

La storia del Friulici insegna che il nostro popolo ha saputo tante volte inventare le forme più adatte, in armonia con i tempi ed i luoghi, per vivere in maniera responsabile e comunitaria la fede, la speranza e la carità che vengono dal Vangelo; basti pensare alle "vicinie" del Medioevo, alle confraternite del '600, alle istituzioni cattolico-sociali di questo secolo. Ciò che è accaduto una volta può ripetersi anche in avvenire se avrèmo il coraggio di offrire al Friuli un nuovo volto di chiesa: la chiesa della parola di Cristo, delle piccole comunità che riescono a far fiorire la loro ricchezza di doni e di ministeri, di una liturgia popolare e locale. Non più una chiesa clericale-monarchica, ma una chiesa ministeriale.
"Il frutto dello Spirito è l'amore" (GaIS, 22) dice S. Paolo; ed in un'altra occasione scrive: "Dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà" (2 Cor 3,17).
Lo Spirito Santo ci dia amore e fiducia, libertà di seguire Gesù Cristo, possibilità di dialogo vicendevole, e per la chiesa in Friuli ci sarà un futuro.

Cjampei di Ravascletto, 13 settembre 1988

(seguono le firme)

(Traduzione dall'originale in lingua italiana) .

Stampât in propri.
Grop di studi Glesie Locâl, Canoniche di S. Jacum, Place San Zuan 23 - 33030 Ruvigne Ragogna (Ud).

domenica 23 novembre 2008

CIRINT LIS OLMIS DI DIU

Cirint lis olmis di Diu (Cercando le orme di Dio) è un libricino, (praticamente un tascabile di cento pagine) scritto da pre Toni (al secolo don Pietrantonio Bellina), un prete come si potrebbe già intuire dal titolo, ma non un prete qualsiasi come ce sono tanti, prodotti con lo stampino “made” in seminario!
Volendo tracciare una brevissima nota biografica, pre Toni nasce durante la seconda guerra mondiale (precisamente il 22 febbraio 1941) in un paesino storico, che balzerà agli onori della cronaca mondiale, suo malgrado, a seguito dei disastrosi terremoti del 1976. Pre Toni vive una misera ma dignitosa infanzia, comune alla maggior parte dei friulani, post bellica. A undici anni, entra in seminario, seguendo quella che sente essere la sua vocazione, non senza provocare disappunto nel padre. Seguono gli anni del seminario, in cui si metterà in luce soprattutto la sua indole ribelle, non incline a seguire le regole che vengono imposte dall’alto. Nonostante ciò il 29 giugno 1965 viene ordinato prete e ha inizio la sua carriera professionale. Dopo aver trascorso tre anni da cappellano a Codroipo, vince il concorso (cui in seguito scoprirà d’essere stato l’unico partecipante) per una parrocchia rimasta vacante, ad Arta, nelle frazioni di San Martino di Rivalpo, Valle e Trelli. Insomma il nostro autore diventa un carnico d’adozione. E s’innamora di questa gente e questa terra. Oltre a essere prete è anche maestro elementare, con la passione per la scrittura. La sua salute è sempre stata piuttosto cagionevole, e proprio durante un periodo di convalescenza, inizia a tradurre, per scherzo, le fiabe di Esopo e Fedro, in friulano. Ha così inizio la sua produzione letteraria, prevalentemente in lingua friulana, ma con qualche eccezione anche in italiano. Nel 1982 viene trasferito in pianura, vicino a Udine, diventa parroco di Basagliapenta..
Questo libretto è il il frutto di una raccolta di scritti già apparsi sul settimanale diocesano “La Vita Cattolica”. E’ l’autore stesso a narrarci la sua genesi. Siamo oramai giunti al 1993, pre Toni, ha 52 anni, quindi è persona matura, ma la sua verve ribelle, non l’ha abbandonato, anzi forse si è acuita. Il direttore del giornale, intuendo le potenzialità comunicative di pre Toni, lo invita a scrivere una rubrica, lasciandogli carta bianca, a patto che “non esageri”. La prima “Olme” viene pubblicata l’ 11 novembre 1993, ne seguiranno moltissime altre, fino all’ultima, che sarà quella del 21 aprile 2007. pre Toni lascerà questa terra nella notte fra il 22 e il 23 aprile 2007.
Il libro raccoglie le prime 41 “olme” che ha scritto. Praticamente sono il frutto delle sue osservazioni, considerazioni, su ciò che colpisce il suo interesse e quindi la sua fantasia, durante la settimana. Si tratta di un diario, in cui mette a nudo i suoi pensieri, la sua anima. Parte dalle piccole cose, dai piccoli accadimenti quotidiani, per poi giungere a riflettere sulle grandi cose della vita, della storia. Si parte da un piccolo orizzonte, racchiuso in un fazzoletto di terra, in un orto, per poi ampliarsi e spalancarsi sul mondo, sull’universo e giungere fino alle stelle. La bellezza della sua fede, sta nel riuscire a cercare e trovare Dio nelle piccole creature del cosmo, che la maggior parte delle persone guarda distrattamente e non vede. Il suo diario, segue il filo dello scandire temporale del calendario liturgico. Il diario scolastico, inizia settembre e termina a giugno. Le agende degli adulti iniziano il primo gennaio e terminano il 31 dicembre. Il “diario” di un curato di campagna, inizia con l’Avvento per quattro domeniche, fino a giungere al Natale. E poi c’è la Madonna Candelora, il 2 febbraio “giornata delle vite consacrate”, la Quaresima, la Pasqua, il 25 aprile la rogazione di san Marco. Maggio il mese della Madonna e la festa dell’Ascensione, con il “bacio delle croci” a San Pietro in Carnia. E Pentecoste con la discesa dello Spirito Santo, il Corpus Domini e poi finalmente il tempo “ordinario”, in cui non ci sono grandi feste da celebrare. Il 24 giugno la Chiesa ricorda San Giovanni Battista, per pre Toni, un santo strambo, la voce che grida nel deserto, per cui nutre gran simpatia e nel libro ci spiega il perché. A luglio non si lascia sfuggire l’occasione per una critica al “Meeting giovani” organizzato dalla diocesi che si tiene a San Giovanni al Natisone. Giunge a scrivere che sarebbe preferibile per i giovani andare a mangiar salsicce e a ballare a sagra in qualche paese. Per sant’Ermacora e Fortunato, patroni di Udine, il 12 luglio, ci parla delle radici aquileiesi della Chiesa friulana. Poi ci racconta la storia di sant’Alessio, un esempio che dovrebbe ispirare le nuove generazioni friulane. Un saluto molto toccante è quello indirizzato a Bepi, morto suicida, a cui un tempo la Chiesa, avrebbe negato anche i funerali. E poi le sue considerazioni sulle “radiazioni” benefiche dell’altare durante la messa. La Madonna dell’Assunta, per la maggioranza delle persone il Ferragosto. Considerazioni sulla religiosità dei suoi fedeli e sull’ipocrisia della Chiesa in materia di sessualità. Per concludere una preghiera alla Madonna. Perché questo libro potrebbe piacere anche a un ateo? Perché pre Toni è una voce critica, che difende l’uomo e non Dio, che non ha bisogno d’essere difeso dall’uomo. Perché è più vicino all’uomo comune, che magari diserta le funzioni religiose, ma che anche involontariamente onora Dio, che a chi per professione ha scelto la carriera ecclesiastica. Lettura sconsigliata a bigotti e benpensanti: potrebbe urtare le loro sensibilità e mettere in discussione le loro certezze.


PATRIZIA VENIER
Udine, ottobre 2008

domenica 9 novembre 2008

SIOR SANTUL

Sior Santul (letteralmente: signor Padrino) è l’appellativo con cui, solamente in Carnia, viene ancora oggi indicato e chiamato il parroco del paese. Questo termine racchiude in sé un profondo significato poiché il parroco, battezzando tutti i bambini del paese, diviene automaticamente SANTUL (cioè Padrino) di tutti e, per diversificarlo dal padrino personale di ciascuno, viene appunto chiamato SIOR SANTUL.

Su inconsapevole e benevola istigazione dell’amico Marino, ho riletto (per la terza volta, come accade solitamente per i libri che emozionano) questo primo lavoro di pre Antoni Bellina, pubblicato 30 anni fa, nel 1976, alcuni mesi PRIMA del terremoto del 6 maggio, quando l’autore non aveva che 35 anni.

Pur se ancora acerbo nello stile, che avrà completa maturazione negli anni seguenti, pur se appesantito da inutili ripetizioni, questa opera (che a mio avviso resta la più fresca e genuina di questo autore) racchiude già in nuce tutta la filosofia ed il pensiero di pre Toni Beline, che saranno via via riproposti e approfonditi successivamente nelle oltre 100 altre pubblicazioni, che la penna fantasiosa e assai prolifica di pre Toni ha finora partorito e continua a partorire incessantemente. Vi è perfino (pag. 49 e pag. 65) il preludio al suo lavoro più conosciuto e contestato, pubblicato poi nel 1999, “La fabriche dai predis” (già presente nella nostra biblioteca), che è una singolare autobiografia nella quale pre Bellina, prendendo lo spunto da fatti personali, fa l’autopsia ad un cadavere (il seminario) riesumato dopo 30 anni dalla sua morte (avvenuta per consunzione propria e conseguente implosione). Caro pre Toni, quelle cose sul Seminario, dovevi scriverle prima, quando il malato era ancora vivente e forse (?) poteva essere ancora salvato; un’ autopsia eseguita a 30 anni di distanza dal decesso, non è mai troppo attendibile e dà spesso risultati fuorvianti o contradditori…

Questo libro invece, scritto in lingua friulana, è la biografia di don Luigi Zuliani (1876-1953), un prete carnico, che restò SIOR SANTUL nel paese di Cercivento per ben 53 anni, dal 1900 al 1953! Una vita spesa interamente a favore di un paese, fiaccato da due guerre, dal fascismo, dalla miseria, dall’ emigrazione… La penna di pre Toni sa cogliere (pur non avendolo egli conosciuto personalmente) le varie sfaccettature di SIOR SANTUL, i suoi aspetti esaltanti e i suoi limiti, i suoi tics e i suoi sbalzi d’umore, la sua totale generosità e la sua cronica povertà… Pre Toni sa scrivere in un friulano squisito, che piace fin da subito, facile, piano ma ricco di significati e immediate emozioni: si gusta davvero lo scrivere di pre Toni, che sa mirabilmente estrarre dalla nostra lingua madre i termini più adeguati (e a volte ormai desueti) per esprimere sentimenti, giudizi, perplessità, stupore, sdegno, allegria…

La grande figura di SIOR SANTUL emerge senza aureola e senza volute d’incenso ma non per questo è meno affascinante e meno coinvolgente: proprio perché è umanamente vera, questa figura di prete appare oggi molto più concreta e solida di tante altre agiografie di preti (e vescovi) che furoreggiano in questi tempi di fiction. Il SIOR SANTUL di pre Toni è un prete vero, reale, che magari va a rubare le mele ai ricchi per darle ai poveri, che magari non paga i debiti fatti per acquistare regali ai bambini, che magari non paga la bolletta della luce adducendo che l’acqua che muove le turbine della SECAB è mandata da Dio anche per lui, che magari ama il vino e non disdegna la compagnia allegra, che magari teme la Madonna Missionaria con la sua corte di mangjons… eppure SIOR SANTUL ci resta nel cuore per sempre con la sua disincantata sapienza, con la sua bonaria semplicità, con la sua fede di bambino, con quel suo terrore dei vescovi-funzionari, freddi come il naso del gatto e lontani dalla gente e dai preti…

Oltre alla splendida biografia di questo SIOR SANTUL, pre Toni Bellina ci offre nelle prime 50 pagine del libro un interessantissimo antipasto, che riguarda l’AMBIENTE in cui si muove il romanzo-biografia. Tra questi capitoli iniziali, meritano senz’altro un interesse i seguenti:

- LA CHIESA E LA SCUOLA in Carnia, dove vengono tratteggiati per sommi capi i lineamenti del problema “SCUOLA” come venne vissuto e realizzato in Carnia nel ‘700 e ‘800, quando la Chiesa era l’unica sostenitrice della istruzione del popolo, poiché lo Stato non esisteva oppure era del tutto assente su questo versante. Vi si racconta dei capellani-maestri, degli ispettori-monsignori…

- LA FAMIGLIA viene raccontata sul modello pre-terremoto 1976 e fa riferimento al tipo di famiglia patriarcale in auge in Carnia fino agli inizi degli anni ’70: molto significativi anche gli spunti profetici inseriti che vi si trovano.

- La RELIGIONE in Carnia ha da sempre una venatura consistente di luteranesimo che la rende diversa e più personale rispetto a quella del Friuli e del Veneto, più bigotta, barocca e preote

- Il CLERICALISMO dei preti è il capitolo più singolare e sincero di pre Toni, in cui vi sono raccolti tutti i temi della successiva attività di scrittore: perché esiste il clericalismo dei preti? E quindi perché è nato poi l’anticlericalismo? Sono temi questi molto cari a pre Toni e ancora oggi costituiscono, a ben vedere, l’architrave di tutta la sua vastissima produzione letteraria in cui traspare sempre questa ansia genuina, mai appagata, di volere eliminare il CLERICALISMO dei preti, causa di tantissimi mali per il Popolo di Dio. Pre Toni ama comunque profondamente la sua Chiesa “casta et meretrix”, la vorrebbe però meno meretrix e più casta, più genuina e meno burocratica, più “accanto” e “nel” popolo, che “sopra” il popolo. Di questo si angustiava Pre Toni Beline nel 1976, a 35 anni. Di questo si angustia oggi, nel 2005, a 64 anni!

venerdì 18 luglio 2008

DAL PROFONDO

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Prima di lasciarci ci furono gli ultimi accordi per la presentazione di Palmanova che era programmata per cinque giorni dopo e perfino per il progetto di una gita in Carnia nei suoi paesi tanto amati.

Poi noi l'abbiamo fatta ugualmente quella gita...

Quel giorno durante la nostra visita non fece trasparire nessuna preoccupazione, sicuramente per non allarmarci, ma evidentemente c'era qualcosa nell'aria, se quasi sempre negli ultimi tempi al telefono mi diceva “ o soi strac”, se anche nel libro intervista del giornalista Marino Plazzotta si legge questo passaggio premonitore : “ Se dovessi chiudere ora , chiuderei bene. Con le poche briscole che ho avuto credo di aver fatto una partita discreta. Per il resto non faccio progetti. Non ho né la forza , né la lucidità”.

Se infine aveva confessato al vescovo Battisti, che era stato a trovarlo nel suo ultimo ricovero, di sentire la morte vicina.

Poi arrivò quella telefonata con la tragica notizia della sua morte che mi lasciò addolorato e sconvolto...

In verità la sua morte ha fatto sì che sapessimo dai giornali quasi tutto della vita , delle opere, della sua personalità straordinaria. Di questo prete scomodo che viveva appartato , quasi emarginato, ma che aveva continuato a scrivere, a pensare, a svolgere la sua missione di educatore di anime, che ha sempre insegnato a essere liberi e responsabili pagando fino in fondo il prezzo di questa libertà.

In quei giorni sono arrivati anche, magari tardivi, elogi da tutte le parti, come tardi è arrivato l'annuncio che era quasi alla fine l'iter per la concessione della laurea honoris causa, e della presentazione del suo messal al Papa da parte del vescovo Brollo, presente a Roma proprio nei giorni della sua morte.

Una cosa è certa: il Friuli è più povero, come è stato scritto.

Perchè don Bellina, oltre che sacerdote, è stato scrittore, intellettuale, giornalista, e naturalmente accanito infaticabile friulanista. E' stato l'anima di Glesie Furlane,l'associazione che ha nel suo statuto come scopo principale di andare alla scoperta delle radici culturali e religiose del Friuli.

Ha diretto per moltissimi anni la rivista “ Patrie dal Friul” che si è sempre battuta per l'autonomia. In un bell'articolo sul Gazzettino, in occasione dei 60 anni del periodico nato nel 1946, Bellina concludeva dicendo : ” Nonostante i risultati deludenti de semence butade, noi continuiamo a seminare, a tenere accesa la fiamma dell'autonomia. Siamo convinti che nel cuore dei friulani resta sempre questo desiderio di autonomia, questa coscienza di una identità e alterità. Si tratta di continuare sperando nelle sorprese della storia e nell'intelligenzanostra gente”.

Ma Bellina è stato soprattutto scrittore e in particolare grandissimo prosatore ed ha scritto moltissimo...,, e naturalmente sempre esclusivamente in friulano, come in friulano celebrava la messa e le funzioni religiose nella sua parrocchia. E' quasi impossibile citare tutti i suoi libri: una volta mi aveva scherzosamente confessato di considerarsi a questo proposito un incontinente.

Ne “La fatica di essere prete” il bellissimo libro intervista di cui poi vi parlerà Marino Plazzotta Bellina uscito anch'esso subito dopo la sua scomparsa, racconta di aver cominciato a scrivere per caso, quasi per scherzo traducendo a voce ad alcuni amici preti le favole di Fedro dal latino in friulano. Era rimasto colpito che quelle favole fossero belle anche in friulano e così le tradusse tutte e ne venne fuori il suo primo libro: “Lis flabis di Fedro voltadis pai Furlans”, nel quale ad ogni favola aggiunse anche un'attualizzazione sulla nostra società e sul nostro tempo.

Una delle opere che fece più clamore suscitando risentimenti e dure reazioni tanto da venire ritirata dalle librerie è stata “ La fabriche dai predis”, della quale Proprio ultimamente si è tornato a parlare e a discutere a causa di una possibile ristampa in una traduzione in italiano..

Ma il suo nome resterà indubbiamente legato alla traduzione della Bibbia.

Un sicuro lasciapassare per il Paradiso l'ha definito il vescovo Brollo. Si può ben dire che la sua vita sia stata segnata da due fondamentali esperienze profondissime e laceranti: le malattie e la Bibie...

Spesso raccontava che quando arrivò all'ultimo versetto scoppiò in un pianto dirotto probabilmente anche nella consapevolezza di aver raggiunto uno storico traguardo per tutto il Friuli e per la sua Chiesa.

L'ultima sua opera... uscita poco più di un mese prima della sua morte... è “ Storie Sacre” , con la quale lui che diceva di non essere molto portato per la poesia ci regala in rima alcuni episodi della Bibbia e del Vangelo che si leggono con un piacere gioioso per la genuinità, la semplicità il candore dei versi che escono spontanei da suo cuore

Tutti hanno sempre parlato di prete scomodo, controcorrente e anche di carattere scorbutico e difficile. Pochi hanno evidenziato la sua tenerezza, la sua grande umanità, la sua capacità di ascoltare, assolvere, rispettare, di proporre una religione fatta di amore , di accoglienza, vicina alla gente. Tutte cose che ho potuto constatare di persona nel mio pur breve sodalizio con pre Toni. Come dimenticare il suo lato romantico, il suo amore per la natura, per gli animali

( al suo funerale nella cappella lungo la navata si sentiva cinguettare il canarino che era solito portare in chiesa durante le funzioni), o ancora la capacità di commuoversi ascoltando la sua musica preferita o l'affetto e la simpatia che aveva per i bambini ?

Certamente la sua vis polemica innata ( si è letto anche il termine enfant terrible) , sicuramente il suo tono, il suo linguaggio duro , schietto, senza alcuna preoccupazione di addolcire termini e giudizi può forse irritare e scandalizzare , come spesso è successo.

Ma a una lettura attenta e non superficiale si percepisce “ Il respiro vasto , profondo con cui l'autore guarda l'insieme della realtà della fede e della prassi di fede nella storia” , come sottolinea molto bene Cristina Bartolomei, docente di filosofia morale all'università di Milano nella prefazione a un'altra delle opere più sofferte e compiute

Et incarnatus est” , pubblicato nel 2005.

Scrive ancora la professoressa: “ Le note di fondo sono gli affetti, la passione, il travaglio, la profonda fede e pietà, l'amore grande alla Chiesa, alla storia di fatica e di liberazione dell'umanità, ai piccoli e agli ultimi, alla grande tradizione aquileiese, radice della Chiesa friulana”.

E per quanto riguarda la sua forza e libertà di pensiero, la sua modernità la sua visione rivoluzionaria della Chiesa voglio citare come esempio la questione del sacerdozio alle donne, tema che affronta proprio nell' “Et incarnatus est”, ma che riprende anche nell'intervista al giornalista Plazzotta.

Ecco cosa scrive Bellina: “ Essendo la religione un qualcosa che parte dal cuore e dal sentimento più che dalla testa e dalla razionalità, la donna è tanto più adatta dell'uomo ad avere una parte portante nella religione.

Io preferirei avere per prete una donna perchè la religione è più femminile più consolatrice... in che dì che la femine cu le so feminilitat e sensibilitat e podarà celebrà i misteris e proclamà la paraule e sarà une grande zornade! “.

Venendo al “De profundis” non starò a entrare nei dettagli di come è nato questo progetto né delle circostanze casuali anche se in parte ricercate che ne sono state all'origine, che comunque potrete leggere nella mia presentazione al libro.

Mi preme invece ribadire che tutte le fasi, i momenti , i passaggi sono avvenuti col consenso, la collaborazione, i consigli e , ci tengo a dirlo, gli incoraggiamenti di pre Toni.

Voglio precisare questo perchè mi rendo conto che probabilmente questa operazione può aver suscitato una certa sorpresa se non addirittura qualche perplessità, visto che nonostante i miei oltre quarant'anni di permanenza in Friuli sono a tutti gli effetti considerato giustamente un veneto, né va trascurata la mia laicità di pensiero, che del resto pre Toni non mi ha mai fatto pesare, e inoltre non si può dimenticare che è la prima volta che si traduce in italiano un libro di Bellina.

Rispetto alla mia capacità di destreggiarmi col friulano ( ho scoperto comunque che anche molti friulani stentano a leggere nella loro lingua) voglio dire che il friulano ho imparato a conoscerlo dai miei familiari in casa e dai tanti friulani che ho frequentato. Mi ritrovo a usare in modo del tutto naturale quel saluto mandi -uno dei più belli che esistano, comunque si voglia interpretare: stai bene a lungo o rimani con Dio.

Ed ho conosciuto e letto anche il friulano letterario: l'ho apprezzato nei versi dei miei amici Maria Fanin e Galliano Zof, nell'opera fondamentale “ I Turcs tal Friul” di Pasolini, nella raccolta di poesie “Libers di scugnì là” di Leonardo Zanier, nei poemi grandiosi di Domenico Zanier:

tutti testi in grado di far riflettere, di arricchire, di scavare nell'anima, ma anche capaci di emozionarmi e commuovermi, come il canto religioso “ Suspir da l'anime” di Oreste Rosso diventato il canto di saluto ai morti nella comunità di San Giorgio e non solo.

E quindi quando ho letto per la prima volta “ De profundis” e ne sono stato letteralmente colpito e affascinato, mi sono sentito in grado di tentare questa avventura. Ero certo che anche in italiano avrebbe avuto grande dignità e forza e avrebbe permesso di allargare e crescere il numero dei lettori. Mi aveva incoraggiato anche un passaggio della breve presentazione al libro di don Romano Michelotti:

Al è un libri che al pues jentrà a plen dirit te leterature sapienzial dal mont, fat par furlan ma no dome pai furlans.

Ora non v'è dubbio che la possibilità di lettura anche dei non friulani passa attraverso la versione in italiano. La traduzione è quasi sempre strettamente letterale per cercare di non perdere la freschezza, l'immediatezza, la passionalità del friulano di Bellina.

Devo ammettere che non sono mancate le difficoltà superate anche col suo aiuto...

Ma non ho mai avuto ripensamenti, convinto man mano che procedevo che la versione italiana manteneva tutta la forza , la musicalità, il ritmo del testo originale. Il mio intendimento è stato comunque quello di dare risonanza a un libro di straordinario valore di scrittura e di contenuti. La speranza e l'augurio è che ci siano molti nuovi lettori, ma anche che molti friulani saranno stimolati e invogliati ad andare a leggersi il “ De profundis “ in friulano che forse anche per merito del mio lavoro è stato recentemente ristampato.

In effetti il riscontro in questi mesi è stato buono e c'è stata anche la soddisfazione di un'ampia e favorevole recensione di Luciano Morandini sul settimanale “ Il Nuovo Friuli”. In cui il poeta scrittore parla di ” testimonianza di una fede che è una fiamma che brucia ininterrottamente, ma senza mai negarsi all'umanità e alla comprensione”.

Il “ De profundis”, il cui titolo nasce dalla personale ammirazione di Bellina per l'opera omonima di Oscar Wilde, è stato scritto nel 2003 in pochi mesi, di getto, praticamente sul campo di battaglia, sotto l'impulso della nuova grave malattia che aveva colpito don Bellina, che evidentemente si sentì di dover dare sfogo alle sue emozioni, per trovare la forza di superare la crisi che lo stava attanagliando al pensiero della catena a cui stava per essere legato per tutta la vita, quella poca che gli sarebbe rimasta, potremo aggiungere adesso.

Il racconto è incalzante, a volte drammatico, intenso e coinvolgente scritto nel caratteristico stile fatto di ironia di dirompente forza polemica ma sempre ispirato, ricco di approfondimenti psicologici e religiosi, di riflessioni sulla vita di ogni giorno, sull'attualità, sulla importanza fondamentale dei rapporti umani, dell'ascolto e dell'accettazione dell'altro.

In tutto il libro aleggia quello che era un po' il tormento di sempre, il dubbio ultimo di don Bellina: come conciliare la bontà di Dio con la sofferenza e la morte. Del resto tutti i suoi scritti comunicano una fede profonda ma allo stesso tempo inquieta che assume dubbi e interrogativi che si dissolvono tuttavia nella confidenza e nell' affidamento del Signore....

E' il tema che pre Toni ha trattato anche nel suo ultimo scritto su “La Vita Cattolica” che si concludeva così:” Se la sofferenza è vista e vissuta secondo la cruda razionalità è uno scandalo, è una assurdità, se invece si va più avanti e si guarda secondo la rivelazione delle scritture, allora diventa la strada privilegiata e sicura per entrare nella gloria”.

Ne aveva parlato anche in occasione della morte della madre qualche anno fa sempre nella rubrica “Cirint lis olmis di Diu”.. un pezzo che mi aveva particolarmente colpito..

Così scriveva allora...Chi non è stato splendido con lei è stato il Signore che doveva risparmiarle quel calvario infinito doloroso disumano incomprensibile . Lo dico da prete ma soprattutto da figlio Non mi sento di dire che è stato buono con lei e neanche giusto .O dis che no lu capis e mi patafi le bocje come Jop...

Ci tengo in modo particolare a sottolineare che le pagine finali di questa versione del “De profundis sono praticamente le ultime parole le ultime riflessioni scritte da don Bellina che gli avevo sollecitato come appendice , come commiato : sono scritte in italiano e datano pasqua 2007..

Oggi a me piace immaginarmelo come l'ha pensato Tito Maniacco in un suo articolo sul Gazzettino: col bastone e la conchiglia in viaggio per una Santiago di Compostela dell'eternità...

con a fianco Colui in cui hai sempre creduto e del quale ha fatto testimonianza per tutta la vita, e al quale -ne sono convinto- avrà cominciato a chiedere spiegazione sui tanti misteri e storture della vita umana e della storia del mondo....

Vorrei terminare il mio intervento leggendovi la parte finale del testamento trovato inciso in un dischetto datato addirittura 1992 probabilmente scritto in un momento difficile..

ma che ci fa capire ancora..una volta la grande sensibilità, umanità e amore per la sua fede e per la sua gente...

il testo ha come titolo “ Cumiat” e sottotitolo “par quant che rivarà le me ore e no podarai dì nuje”

Fradis e amis... è arrivato proprio il momento di lasciarci. Con la speranza di tornare a trovarci. Allungo la mano verso il Signore che mi ha creato e salvato, verso la Madonna che mi ha fatto da madre, verso i nostri santi e morti che hanno fatto il grande passaggio prima di noi e che ci stanno aspettando. La notte è fonda, la paura è grande. Spero che sia grande anche la sorpresa. Mi sto avviando accompagnato da tanta gente, da tanti protettori e amici. Ma anche voi , fratelli, statemi vicino. Fatemi luce con la vostra fede; datemi forza con la vostra speranza; scaldatemi col vostro perdono col vostro affetto. Fatemi la carità di una preghiera: che possa arrivare e arrivare bene. E io vi ricambierò quando arriverà la vostra ora. Guarda, arriva la barca. Pregate. Mandi. (pre Toni pecjador)

Gianni Bellinetti

mercoledì 2 luglio 2008

IL PARADOSSO DI UNA VOCAZIONE di Roberto Iacovissi

Si può vivere il progetto di una vocazione al sacerdozio anche come un paradosso: il paradosso di un amore dal quale si è attratti ma che a momenti ti respinge; continuamente in bilico tra una fortissima tensione spirituale e la piccolezza delle realtà umane con le quali bisogna fare i conti. In questo paradosso, alla fine comunque serenamente accettato anche se non del tutto completamente risolto, sta lo snodo della vita di pre Toni Bellina, che una lunghissima malattia densa di grande sofferenza, ha chiuso per sempre la notte di una giornata d’aprile di un anno fa.
“Sono un pover’uomo che cerca di vivere la sua vocazione - aveva detto all’amico Marino Plazzotta che lo stava intervistando per un libro, La fatica di essere prete -, e che cerca con difficoltà e con qualche incoerenza, di star dentro ad una “baracca”, per annunciare il messaggio della libertà, quel messaggio che dovrebbe essere l’obiettivo primario della Chiesa e che spesso viene dimenticato[…]. Per mantenere la tua libertà oggi devi pagare un prezzo. Non solo un prezzo in termini di carriera: è un prezzo di salute, di intelligenza, un prezzo di vita[…], Non è però un “pizzo” che ti toglie tanto per non darti nulla. E’ un progetto di vita che, anche se riesci a realizzare solo in parte, ti riempie di serenità”.
E così, pre Toni ha dovuto fare tanta fatica: non solo quella fisica, ma anche quella, certamente più pesante, della sofferenza, della incomprensione e della solitudine, per essere coerente all’interno di quella “baracca” nella quale lui aveva scelto di annunciare la libertà. L’amava sopra ogni cosa, lui, quella chiesa, e senza di lei non avrebbe proprio potuto vivere. La chiesa era sua madre, e la gente, la int, la sua patria. E se questa madre e questa patria non le avesse amate fino alla consumazione di sé, certamente non avrebbe patito tante incomprensioni ed ostilità per la schiettezza , a volte persino irriverente, della sua parola, e per il coraggio della sua testimonianza, che lo aveva portato a scrivere tanti libri non per sé, ma per aiutare i suoi confratelli nella ricerca della libertà perché, diceva, “restâ libars intune struture come la nestre al è il spiç de cariere”.
E proprio nella chiesa dei “curiandoli”, come lui l’aveva chiamata, non aveva avuto vita facile, a cominciare da quei lontani anni quando, ancora bambino, si era timidamente presentato davanti ai cancelli del seminario con l’idea di farsi prete , anche se il padre non ne voleva proprio sapere della decisione del figlio. Basta scorrere le pagine di un libro, La fabriche dai predis, dove il titolo ne riassume, emblematicamente, il contenuto, nel quale raccontava , con una lucida analisi sospesa a metà tra una denuncia ostinata ed amara, che tradiva un’intima delusione, ed una sorta di melanconica nostalgia per quegli anni, la sua difficile esperienza( che era poi quella di tanti suoi confratelli)di crescita nella preparazione verso il sacerdozio.
In quel libro - confessione, ma anche lucido trattato di sociologia di formazione del prete, per così dire, sul campo, pre Toni raccontava le difficoltà e le incomprensioni che aveva dovuto superare per mantenere la sua scelta. Era un libro polemico e coraggioso ad un tempo, il suo, che confessando la sua – e quella di altri come lui – esperienza senza nulla tacere, aveva squarciato il velo su di un mondo presso ché sconosciuto.
L’aveva scritto – ma questo lo confesserà più tardi – con l’idea di offrire un regalo ai confratelli ed alla Chiesa affinché cogliessero l’occasione per una verifica e per un eventuale cambiamento; invece, quella Chiesa che in cuor suo sperava fosse “semper reformanda”, aveva chiesto all’autore di togliere il libro dalla circolazione: E pre Toni ubbidì, e si può capire quanto gli dovette costare quel gesto di ubbidienza e d’amore verso la sua Chiesa.Perché quel libro l’aveva scritto per amore della Chiesa e della verità, come era avvenuto per un altro libro precedente, uno dei suoi primi lavori, Siôr Santul, nel quale raccontava la vita di don Luigi Zuliani, parroco di Cercivento, dedicandolo a tutti i sacerdoti “che non hanno fatto strada in questo mondo, con la speranza che la facciano nell’altro, e a tutti coloro che hanno fatto strada in questo, con la speranza che non ne facciano anche in quell’altro”.
Nel paradosso di questa affermazione, la sua invocazione di giustizia. Non certo per sé, in quanto la sua scelta, “di frutin in sù, forsit par chê timidece che par nô furlans, soredut di estrazion contadine o paesane, e je une seconde piel, o ài cirût di tignîmi lontan dai grancj sunsûrs e des grandis folis. Cussì o ài preferît al paisot il paisut, a la place la periferie, a une gleseone une gleseute, miôr ancjemò se di campagne e fûr di man, come chês gleseutis votivis che a segnin stradis e lis vitis de nestre int. Gleseutis che no àn altre companie che lis liseltris e il cjant dai ucei al prin cricâ da l’albe a la ultime spere di soreli”. E del paradosso si nutriva anche la sua vis polemica : i paradossi, erano un po’ le sue parabole, e proprio da loro traeva granelli di insegnamento per tutti capovolgendo, come era nel sue costume, le convinzioni correnti, giudizi stereotipati e certo immobilismo acquiescente presente tra tanti fedeli.
Anche la sua vita, del resto, era stata una vita di paradossi: prete nella scuola e maestro in chiesa, amava dire, perché la sua università l’aveva fatta tutta a Valle e Rivalpo, in Carnia, dove aveva vinto il concorso per fare il pievano( ma soltanto più tardi aveva saputo di essere stato l’unico concorrente), ed era stata una università popolare, una scuola di popolo che iniziava proprio dalla vita quotidiana, a contatto con la gente con la quale aveva scelto di vivere dopo il seminario
Sotto il Tersadia era diventato pievano un una sorta di Barbiana, e per insegnare ai bambini – lo farà per quattro anni- aveva perfino studiato per ottenere il diploma di maestro, ed era un titolo di cui andava fiero, e così si era immerso in una esperienza di prete e di maestro come don Milani. La scuola di Barbiana lo aveva affascinato da subito: per questo aveva avviato la sua scuola, dove si insegnava in friulano. Voleva che il suo popolo, muto da sempre, incominciasse a parlare nella sua lingua, ed era andato anche oltre, facendo in modo che la sua gente potesse leggere ascoltare la parola di Dio nella sua lingua, e parlasse con Lui come si può parlare con il proprio padre e con la propria madre. Quella sua gente che a tutti aveva preferito forse da quando, arrivato a Barbiana in una sorta di pellegrinaggio con l’amico pre Romano, aveva deciso di portare a casa, in ricordo, un ramo di ginestra, sperando magari di poter portare quell’esperienza in Friuli. Ma il buon Dio non aveva permesso prendesse piede in terra friulana. Dio, aveva detto in quella occasione pre Toni , ci aveva castigati, perché le rose di Barbiana bisogna andarle a vederle a Barbiana. Qui dobbiamo piantare rose adatte alla nostra terra ed alla nostra aria.
Ma, a parte la lingua e la diversa tradizione culturale delle due realtà, tra la sua esperienza e quella di Barbiana c’erano moltissimi punti di contatto: la scelta dei più poveri e del piccolo paese, i rapporti problematici con la curia e lo stesso rigore morale nell’insegnamento.
Controcorrente e paradossale è anche un libro, dal titolo significativo Trilogjie, con il quale, come lui stesso aveva scritto, avviandosi verso quella età della vita nella quale ci si avvicina alla sera, aveva voluto fare un percorso spirituale che aveva chiamato analogico e, per molti versi, quasi autobiografico. Con quel libro aveva voluto andare a cercare virtù, insegnamento, sapienza profezia, regola di vita. riflesso di Dio laddove per solito non li si va di certo a cercare, componendo un trittico, una trilogia, appunto, nella quale non aveva voluto raffigurare tre santi che tutti lodano, ma tre persone, tre esistenze, tre fratelli che nella loro vita sono stati criticati, emarginati, condannati dai benpensanti e dai tutori del buon ordine, che non è sempre ordine e raramente buono: don Lorenzo Milani, Oscar Wilde e Pierpaolo Pasolini.
Tre anime tormentate come la sua, che tormentano anche noi, e che il passare inesorabile del tempo e l’acquietarsi terapeutico delle passioni e dei pregiudizi ci presentano nella loro grandezza più sfavillante, nelle loro intuizioni più approfondite, nella loro unicità sempre più evidente marcata. Anime che sono entrate nella eternità, ma che dalla eternità continuano a parlarci ed a insegnarci la strada come fanno le stelle del firmamento. E solo Dio sa quanto abbiamo bisogno di stelle” in chest nestri cîl simpri plui fumul, in cheste gnost simpri plui scure e incuietant”.
Pasolini, addirittura, lo aveva messo tra i profeti. Perché il profeta, aveva scritto, è colui che parla al posto di; davanti e prima di, cioè prima di tutti. E Pasolini, per pre Toni, era un profeta non perché avesse fatto profezie sulla fine del mondo o sull’al di là, ma perché le aveva fatte per questo mondo. Poi, con l’affetto sincero che provava per il poeta di Casarsa, come per gli altri due amici dei quali si sentiva come sodale in cammino, chiudeva la sua trilogia raccontando dell’amico Pasolini quello che certo avrebbe voluto raccontassero di lui: “Vorrei anche che gli amici non lo canonizzassero e i nemici non lo demonizzassero: neppure lui ha voluto passare per un modello di perfezione”. Poi, l’ultima preghiera per l’amico, che è di certo stata la sua ultima invocazione: che il suo cercare tormentato e contraddittorio possa trovare in Dio la gioia e la pace.Quella pace che pre Toni forse non aveva completamente trovato sulla terra. “Quando sono arrivato in questo mondo, chi se ne accorto, aveva scritto in De Profundis, il suo ultimo, grande salmo esistenziale. Quando me ne andrò, chi si scomporrà? Chi può perdere tempo ad ascoltare il mio grido, dal momento che tutti gridano la loro passione, e questo grido cosmico è tanto grande, tanto tremendo, tanto angosciante che non si riesce a sentire alcun tipo di suono?”
Defunctus adhuc loquitur: ma pre Toni ci parla anche dopo morto, ci parla anche lui da profeta del nostro tempo, luce che rischiara il cammino che dobbiamo affrontare con il suo esempio, ma con la nostra responsabilità, come lui amava ripetere.Senza alibi e senza illusioni di sorta, perché ciascuno di noi deve caricarsi della sua croce e camminare con le sue gambe verso la pienezza della verità e della vita. I grandi, compresi i profeti come lui, possono aiutarci, indirizzarci, illuminarci, ma non possono prendere il nostro posto e compiere la parte che Dio ha destinato a ciascuno di noi.

Roberto Iacovissi

sabato 28 giugno 2008

STANT CHE USGNOT...

Stant che usgnot a son diviers intervents, che a daran aspiets e elements de figure di pre Antoni diferents e svariâts, jo ancje pal fat che o soi predi, o cirarai di presentâ la figure di pre Antoni come predi, om di glesie, di vanzeli, di fede, pastôr, tant a dî te sô funzion primarie. E lu fâs ancje parcè che lui pre Antoni nol à mai vût il minim dubit te sô vite di fâ alc di diferent che il predi-plevan. Lu à sintût di frut in su e cun dutis lis rognis che la gjerarchie i à dât nol à mai metût in discussion la sô sielte, la sô clamade, la sô indule e passion. Che anzit il piês cjastic che a podevin dâi al jere propit chel di gjavâi la parochie, la sô comunitât, la sô int, che jere deventade ancje la sô famee. Duncje mi pâr just presentâ cualchi so pinsîr su come che al viodeve il predi, come che si viodeve sè, e che propit il gleseam masse voltis al à criticât in maniere pesante, e che invezit lui al à vivût cun grande coerence e serietât. E po a Pierluigi te dì de sô consacrazion i veve fat un biel regâl “Fasiti predi e rangjiti”. O presentarai cualchi element, cualchi aspiet fasintlu fevelâ lui, presentant une piçule antologjie dai siei scrits, dal so pinsîr. E o doprarai tescj pal plui dai prins siei periodos di scritôr, che pal moment al è dificil reperî. Si puès notâ une sô coerence di pinsîr che e à durât dute la sô vite. Al veve gambiât dome il stîl di scrivi: plui garibaldìn tal imprin.

1. Il so rapuart di predi cu la gjerarchie.

Si sa che al è stât un rapuart conflituâl, in tension, pes posizions critichis ma ancje claris che al cjapave tai confronts de struture o de barache, come che di solit le clamave. E cun ducj i fastidis che si tirave intôr nol à mai desistît. Par chest di pò paragonâlu ai grancj profetis de storie bibliche e de glesie che no àn mai vude vite facile cul podê.

Lis posizions claris e fuartis che al cjapave a sburtavin daspès predis in cariere o ancje che a smicjavin a la cariere a dî: “Ce spietial a saltâ fûr de glesie”. Ma sintìn ce che al pense lui in merit: “Ce dirit-dovê aio di impaçâmi tes cuistions de diocesi? Ce competence e ce cognossince aio di chescj problemis? Soio sigûr di volê il ben de mê glesie o no vadio cirint une mê figure di protagonist a ogni cost? Jo o pretint che la glesie e sedi perfete, ma jo soio perfet? No disial il Vanzeli che chel che al è cence pecjât al è l’unic in grât di tirâ il prin clap? Il ben de glesie si aial di mostrâlu criticant o tasint? Un fi mostrial l’afiet par sô mari cul lâ a spampanâ lis sôs pecjis par che si mendi o preant e patint e vaint di scuindon par che il Signôr i tocji il cûr? … Se propit propit no mi va nuie, parcè restio dentri, mangjant il pan de istituzion, invezit di vê la coerence di lâ fûr? Cui aial zovât plui a la glesie: I ribei e i riformadôrs o i sants che a àn patide l’injustizie tasint e perdonant? Dutis domandis che mi soi fat sepi Diu tropis voltis, inte mê cariere martoriade di predi. ... E insieme la pore di jessi fûr de gracie di Diu… Ce tantis voltis che o ai sintût dentri di me la voe di fermâmi, di tasê… Ma ogni volte, cul cûr insanganât, o soi lât indenant. Parcè che une vôs mi sburtave a fevelâ, a intervignî, a sclarî. Come une condane a fâ une vore plui grande di me, par int plui buine di me…” (Scrits inedits 1992). Al pâr di sintî il profete Gjeremie. Al salte fûr dut il so amôr, la sô passion par une glesie plui gjenuine, plui evangjeliche, che i zovi no a se stesse ma a la int…

2. Predi cuintri dal clericalisim

La passion pe glesie, però, lu puartave a contestâ il clericalisim. Fevelant di tante gjerarchie clericâl al dîs che cul passâ dai secui “… Invezit di servî i plui piçui e debui, si à scomençât a servîsi di lôr e a tignîju sot, contant ancje cualchi sflocjute a messet de veretât e spirtantju cu la pore dal boborosso. Al pape bisugnave bussâi il pît, ai vescui l’anel stant in genoglon, ai predis la man stant cul cjâf bas. No jerin plui ministris: a jerin deventâts parons; in cheste maniere, un pôc a la volte, al è nassût il clericalisim, vadì il podê dal predessam e, par reazion, l’anticlericalisim, vadì la fote cuintri la tribù dai corvacs”. – Al continue: “I predis di serie A a son chei che a fasaran ferade, che a laran a finîl te trasêf. Jo ju clami «poleçs di alevament», che, se si ju mangje, no san di nuie. A son bogns dome di dî “sissignor!” e di tignî salts i privilegjos dal gleseam. No son i plui inteligjents, anzit plui di un si viôt che no i rive la tele, però a son sigûrs par chel che al comande. Cussì i vescui ju metin tai puescj plui impuartants o adiriture tal gjalinâr de curie. Si ju viôt subit in muse: ben mitûts, corets, cul cjâf in bande, cul breviari o la corone in man, simpri a puest, bausaruts, ma dome pal ben de glesie, lechins, oratôrs di “aiar”. (Siôr santul 1976, p. 55.57).

Plui di cualchidun al considerave pre Antoni un dissacratôr. In veretât nol à mai dissacrât nuie, al à vût simpri grant rispiet ancje de religjositât popolâr che tai secui e à tignût sù e judât la int intes traviersiis e tragjediis de vite. Par fâus un esempli banâl: La sô tonie no le doprave mai, anzit i plaseve meti biei vistîts e golarinis, però no le à mai prestade a dinissun par che a lessin in mascare come che tancj devotissim a fasevin, parcè che par lui ancje la tonie e veve un so valôr simbolic. “Che resti picjade tal armaron”, al diseve.

Come che al inmagjinave e al sumiave la glesie, plui che dissacrâle, al à cirût di declericalizâle, scombatint la prepotence clericâl. Dopo un fat di cronache sucedût, doprant il gjenar leterari de letare, al scrîf “A un plevan prepotent”. Al dîs “…Salacôr tu sês prepotent parcè che tu ti sintis intal ordin, te ortodossie, te schirie ridote dai juscj. Jo, che o soi sul ôr dal ordin, di dubie ortodossie e di scjarse virtût, tolerât come Calimero, no pues permetimi di jessi prepotent, parcè che mi vignarès di ridi par prin a mi. Acete alore dôs peraulis a non e a pro de “massa damnatorum” che e je simpri stade maiorance, in teste des premuris comprensivis dal Signôr, unic Pastôr e Redentôr e cence deleghis.

No sta inluditi di jessi tu il pastôr des pioris, dal moment che ancje tu tu sês piore o roc. No sta croditi paron de gracie, che ancje tu tu âs dibisugne de gracie e dal perdon. Come e plui di ducj.

No sta jessi masse sigûr dai progjets di Diu, parcè che lui al reste mistereôs e incomprensibil ancje pal plevan e pal pape. Se tu sês masse sigûr di Diu o tu sâs masse di lui, spaventiti, parcè che tu riscjis di vê par mans un idul, deventant cussì il prin idolatre dal paîs.

No sta mai jessi sigûr che la int no si salvi e tu sì, parcè che Diu al è grant soredut intes sorpresis.

No sta croditi just dome parcè che tu cognossis ducj i pronunciaments de glesie e i dogmis e tu rispietis la leç. La peraule di Diu e cognòs ancje altris cjanâi e cussì la sô misericordie.

Se la fede e je un don di Diu e no sogjete a nissun control, preferìs pensâ che la int le vedi, dal moment che nancje tu no tu sês sigûr di vêle.

No sta sintîti fuart parcè che tu rivis a meti in rie i piçui e i debui. Chei a son simpri stâts in rie. Intai miei agns di mestri, o ai dât tre scufiots, che mi pareve just. O speri che i fruts ju vedin dismenteâts, ma jo no rivi, parcè che nol è onôr dâlis a di un che nol pò tornâlis. Al è plui onôr tignî dûr e cuntindi cul vescul e cui grancj che no cu la int. No sta metiti cuintri dai piçui e dai puars, tu che tu sês vignût fûr di int piçule, là che Diu al va a sielzi lis sôs rosis.

No sta vê pice di difindi Diu, che nol à dibisugne di te. Difint la tô int denant dal Signôr e tu cjatarâs tancj avocats par te.

Cuant che tu alcis la man par minaçâ o par dineâ l’assoluzion, ten a ments che and è une man plui grande de tô e che nus ten sot ducj.

No sta ruvinâ i moments fuarts de fede, come un batisim, une prime comunion o un matrimoni, ch’a son paraltri ancje moments di fieste, cun rimpins e cavîi che no valin un damp che ju segnarà par dute la vite. I sacraments a son stâts metûts pai oms e no cuintri. L’unic che al podarès jessi trist o sevêr al sarès Crist. Ma lui si sentave in taule cui pecjadôrs e impen di condanânus ducj al à distirât i braçs sul len de crôs, robe che tu no tu âs fat” (Olmis n. 2 1997, p. 99). Pagjine di alte spiritualitât.

3. Compit dal predi

Cemût viodial il predi alore pre Antoni. Il predi al à prime di dut il dovê di cognossi la sô int. Il cognossi no in sens statistic o sociologic, fat di numars cence anime, ma tal sens biblic, di un amôr profont, di une cognossince intime, di un filing che si cree tra predi e comunitât. “Il predi al ven a vivi cun vualtris, a fâ un toc di strade insieme. A judâus cuant che o sês jù di cuarde; a indreçâus cuant che o sgarais; a memoreâus lis robis eternis cuant che o sês distrats; a fâus cualchi corezion cuant che o lais fûr di troi; a insegnâus il viaç dal cîl. Il predi al è dongje di vualtris par contâus la buine gnove…” (Sul at di voltâ pagjine 1982, p. 47.48). Un dai siei plui grancj obietîfs al è stât chel di judâ la int, i puars a scuviergi ancje lis propriis virtûts e aspiets positîfs, che ant varan ben cualchidun. Masse inteletuâi e àn dome svilanât i furlans par lôr difiets, che ducj si jusa e si ju cognòs, cence judâju a scuviergi ancje il ben. Disint a un frut che al è roc al cres cu la idee di jessi pardabon roc.

La prime regule pastorâl par pre Antoni e je l’umanitât. Agns indaûr 1997 lu vevi puartât su a Rualp e Val e Treli a incuintrâ i siei prins amôrs, dopo tornât jù al scrîf: “Intun lamp o soi tornât in sintonie cun chel timp fondamentâl de mê vite di predi là che, usance Gjesù a Nicodem, o soi tornât a nassi, bandonant struture, erudizion, programis preconfezionâts, ogni sience e fuarce clericâl, par fâmi ultin cui ultims e spartî lis lôr ricjecis e i lôr limits, che no jerin “secundum ordinem Melchisedec”. Par capî e jessi capît, par cressi e par judâ a cressi. E si pò tacâ cheste aventure dome se si jentre a contat di anime, in plene gratuitât e disponibilitât. Incuintrant i pôcs che o ai cjatât, dopo di vê stât a saludâ i tancj che a àn stralozât tal lûc de polse eterne, o ai capide la leç de relativitât dal timp. Difat a colp si è sbregât il vêl de separazion e al è stât come se o fossin stâts simpri insieme. Parcè che l’anime e tornave a gjoldi e a patî. O ai simpri pensât che l’eternitât e scuen jessi une condane se al mancje l’amôr. Se si stufisi tun’ore, no esal d’ingrisulâsi a pensâ di frontâ i secui dai secui? Ma l’amôr al è vite e contemporaneitât, come che il passât al è muart e sepulture. Se si vuelisi ben, si scancele il passât e si è in eterne presince. Par chel a disin che i amants a son in paradîs. Di tant timp passât insieme, la int no ricuarde plui ni lavôrs ni dutrinis ni teologjiis. Dut chest al ven dismenteât par prin e al è di stupits inviestî in energjiis. La int si vise che o vin preât insieme e soredut che o vin stât ben insieme…. Tal racomandâju ancjemò une volte a Diu, l’unic pastôr e il vêr plevan di un paîs, o torni su la mê idee fisse o carûl: la prime regule pastorâl e je la umanitât. Anzit l’uniche. Intindude tal spieli de incjarnazion dal Signôr. Parafrasant l’Imitazion di Crist, o disarai che, se tu às umanitât, nol è impuartant se no tu às altris cualitâts. Se no tu às umanitât, ancje lis tôs plui bielis cualitâts no valin nuie”. (Olmis n. 2, 1997, p. 9-10).

Alore, la figure gnove dal predi, che par altri par pre Antoni no je nancje gnove, e sarès chê di riproponi ce che al diseve ancjemò san Pauli (1 Tm 3,27): “Il vescul al scuen jessi une vore a puest, sposât cuntune sole femine, misurât, prudent, dignitôs, ospitâl, bon di insegnâ, no cjapât tal vin. No prepotent ma bon di cûr, no barufant, no tacât tai bêçs; al à di savê governâ ben la sô famee e tignî i fîs sotoponûts cun dut il rispiet. Parcè che se un nol è bon di governâ la sô famee, cemût podaraial proviodi a la Glesie di Diu?”. Dit in peraulis nestris, - al continue pre Antoni - al à di jessi un bon om, soredut un om bon, di esperience, madressût. O disarès une persone che inte vite e à fate une biele riessude dal pont di vieste de bontât, de serietât, de onestât, de pietât, che la int si fide a contâi i siei segrets a domandâi un consei. (…et incarnatus est 2005).

4. La dimension ironiche

Si podarès continuâ a dilunc parcè che sul predi e su altris temas pre Antoni al à scrit tantis robis, e ducj i siei scrits a puedin deventâ libris di meditazion e di riflession. Ma no pues ocupâ dute la serade.

Mi plasarès sierâ però ancje cuntun altri aspiet di pre Antoni pôc tocjât: La sô ironie e autoironie. Mi visi a memorie che un capo de curie, intun dai moments plui cjalts di tension, i veve scrit: “Quanto sei caduto in basso don Antonio, non sei capace di sentimenti, non sai sorridere…”. Invezit tra lis tantis robis che o puarti tal cûr e je ancje che cun pre Antoni o vin ancje tant, ma tant ridût.

Sintît cualchi so pinsîr in merit a la ironie e al savê ridi, che al è ce che lu à salvât des batostis morâls cu l’autoritât, di tantis ocasions di depression, amarece, delusion, di tancj moments che lis malatiis lu an tormentât e massacrât. Al scrîf: “Lu san ancje i miedis che no batin lis glesiis e lis canonichis, par frontâ in maniere positive il mâl fisic, nissune midisine plui adate de serenitât interiôr e di un sclip di fede. Tant a dî che, par stâ ben, no baste une pirule o un flebo. E covente ancje une buine ridade e magari une preiere. … Il ridi, su di sé e sul prossim, al fâs ben a dut, tant al cuarp che a l’anime, e al covente come il pan. Un che nol rît mai al è trist o malât. E un che nol vai mai, al fâs vaî chei dongje. … Il ridi, come sfogo salutâr e come segnâl di armonie interiôr, di une persone che e vîf in maniere positive il rapuart cun se stesse, cui oms, cul mont e cun Diu, al è une gracie di domandâle ogni dì a la Madone e ai sants, ancje lôr animis contentis pal fat ch’a jerin inocentis e buinis. Vêso mai viodût un sant rabiôs? Puedial un rabiôs e un salvadi jessi considerât un sant? Cui laressial a impiâ une cjandele e a domandâi la gracie a un sant o une sante cuntune muse di disperât e une cuarnadure di fâ spavent?”. …

Al continue cun cualchi storiute:

“Jo o ai vût mût di cognossi, tai miei agns di predi (Cjargne), tant chei che si ruvinavin e a ruvinavin la famee cul bevi che chei che si ruvinavin e a ruvinavin la famee lant a passon là che no varessin vût di lâ. E no mancjavin i câs ridicui. Come chel che, sintint a rivâ l’om, al jere scjampât pal barcon cuntun pâr di bregons cjapâts sù di corse e a scûr, crodint che a fossin i siei e invezit al è rivât te ostarie cuntun pâr di bregons di garbenîr, cun tant di strissule rosse. Lu àn clamât par dute la vite “il maressial”. O come chel che al leve a passonâ tune cjase crodint che di fâle francje, ma l’om tradît, ch’al saveve dut e al faseve il barbîr, cuant che si è presentât il … cugnât, cence dî né eri né beri, cu la machignete lu à rocât a forme di crôs, come i mus.

Ma il câs plui curiôs lu à contât il gno predecessôr pre Bastian, in glesie, intant ch’al spietave che si des dongje la int pe messe grande. Al jere za parât. Al jere li, tai prins bancs, un trop di femenutis devotis e peteçonis e lui ur domande: “Vêso savût di chel câs di Pordenon, di chê femine che i faseve i cuars al om?”. “Po no che no vin sintût. Ce esal sucedût po, siôr plevan?”. Alore pre Bastian al conte di une femine zovine e murbinose che e tradive l’om e lu faseve dispes, parcè che lui al jere simpri vie cul camion. Une brute dì, l’om al ven fermât dai pulizais parcè che nol à la patente. Al torne di corse a cjase par procurâsi i documents e no ti cjatial la femine in vore cuntun sarcandul? Il bec al scjampe come il fum, ma la femine e reste come paralizade, che no se spietave. L’om, cul gnervôs che lu ardeve e cu l’umiliazion che lu consumave, cence stâ a cincuantâ, al cjape sù une tace, le jemple di diserbant e je fâs bevi a la femine. ”Joi, puare! – a suspirin lis devotis. – Ese muarte?”. “Po no no! – al dîs pre Bastian. – I è dome colât dut il pêl… E cumò tachìn la messe, che o sin in ritart”….

Pre Antoni al conclût la sô riflession: “Cumò si (e) sta passant un moment grivi parcè che la int e cale e, cul sierâsi des glesiis, des scuelis e des cjasis, ancje la int si siere simpri di plui. Bisugne tornâ a ridi, a reagjî, a ripiâ il gust di vivi e di scombati. O vin ridût cui pedôi, cu la miserie, cu lis disgraciis incrosadis, parcè no vino di ridi cumò? Al è un sfogo liberant. E je une midisine psicologjiche straordenarie. … O vuei che la nestre int (la Cjargne) e resti vive e fuarte, ciniche e ironiche, furbe e maliciose. Che e conservi come un patrimoni straordenari e unic la tante sapience, la tante passience, la tante fuarce, la tante santitât ingrumade tai secui. Che e puedi continuâ a sperâ, a lotâ, a cjantâ. A ridi. Par no fâsi ridi”. (Mi ven di ridi, 2006)

mercoledì 18 giugno 2008

UN UOMO A DUE DIMENSIONI

Ogni volta che mi capita di parlare di pre Toni Beline mi pare di sentirlo a fianco come se mai mi avesse lasciato. Il rapporto particolare che ho avuto con lui si rinnova ogni sera quando lo penso. Non posso dimenticare l’aiuto che mi ha dato, il conforto e l’ amicizia con cui mi è stato vicino nella mia esperienza di malattia. E’ rimasto per me un importante punto di orientamento.
E’ con questa emozione che vi voglio parlare di lui, nel tentativo di trasmettervi oltre che il ricordo anche un invito ad avvicinarvi o a continuare a frequentare questo “profeta e pastore”, per coglierne suggerimenti, stimoli e un po’ di luce per illuminare la nostra strada.
Ha scritto sui molti problemi dell’uomo: sulla vita, sulla morte, sulla malattia, sul ridere, sul parlare e sul tacere, sulla fede e sul dubbio che la insidia. Per i suoi numerosi libri, articoli, pubblicazioni è considerato il più prolifico scrittore in lingua friulana di tutti i tempi. Questa è pure la motivazione della laurea “honoris causa”che avrebbe ricevuto questo anno. Mi limiterò ad accennare solo a tre titoli augurandomi che ci sia in futuro qualcuno che ci parli di: “ Scior Santul, Tjere di confin, Sull’at di voltâ pagine, Pre Pitin, Misteris gloriôs, Trilogje, La Fabriche dai predis (ignominiosamente sottratto alla nostra conoscenza e tuttora sotto sequestro), Et incarnatus est, Cirint lis olmis di Diu e v-i.
Prima però vorrei parlarvi dei suoi quadri naif che sono il mio scoop...
Nessuno vi ha mai parlato di un pre Toni pittore. Io li ho trovati meravigliosi proprio per la leggerezza che li ha ispirati e per la serenità infantile che comunicano. Li osservavo ogni volta che andavo a casa sua.
Mi ripromettevo sempre di chiedergli che me ne regalasse uno... Mi devo accontentare delle fotografie.

L’opera per cui sarà sicuramente ricordato nella storia della cultura friulana è la traduzione della Bibbia nella lingua friulana. “Cheste lenghe -al scriveve- sute, essenziâl, concrete, fate di pocjs peraulis, ma dolcis come la mîl e duris come il cret”. Un lavoro enorme, monumentale (oltre 2600 pagine, con note ed introduzioni per ognuno dei 72 libri canonici) . Un libro che dovrebbe essere in ogni casa , vi sia o no uno che crede , perché è sì il libro di un popolo, ma anche il libro della storia dell’uomo con le sue virtù e le sue debolezze ed è la storia eterna di Dio che va in cerca dell’uomo. E’ un libro che può esistere ed aver significato per noi solo se riusciamo, ogni tanto, ad aprirlo ed a leggervi qualche riga. Quando vedrete questo libro immaginatevi di sentire pre Toni che vi dice:

Viodeit che no ài sfadiât dome par me (Si 24,32)

Pre Toni ha scritto quasi solo in friulano.

Vi presentiamo oggi due libri, in italiano, che sono, in un certo senso, singolari: “La fatica di esser prete” è il suo ultimo, mentre “Dal profondo” è la prima traduzione dal friulano in italiano da lui autorizzata e seguita. Personalmente ritengo che questo sia il più bello dei libri di pre Toni. Vi si trova tutta la sua umanità e serenità di fronte alla malattia.
“La fatica di esser prete” è nato per caso. Ho avuto più volte il privilegio di intervistare pre Toni, in collaborazione con VTC, una emittente televisiva che trasmette da Treppo C., ed è sintonizzabile solo nella valle del But. Perchè pre Toni si è lasciato interrogare, anche su argomenti contundenti, solo da noi?: Prima da Celestino Vezzi che lo conobbe quando era parroco a Rivalpo, poi da me che lo avevo visto frequentare il “vagone” l’aula in cui, nei tempi d’oro della “fabriche”, gli studenti di teologia seguivano le lezioni della volgarmente detta “scuele nere”? Amava particolarmente la Carnia ed in particolare la valle del But. Lassù c’è l’antica pieve di San Pietro, tuttora sede vescovile. Arrivato giovanissimo in Carnia a pre Toni, in quanto parroco di san Martino, spettava di diritto il titolo di “Cjaluni” canonico, forse la più alta carica mai raggiunta nella sua inconsistente carriera ecclesiastica. In aggiunta un altro motivo: sua madre era carnica di Davai, dove pre Toni trascorse alcuni momenti della sua giovinezza. Forse queste coincidenze spiegano la simpatia che ha dimostrato nei nostri confronti. Le interviste furono trasmesse da VTC e quindi da Telefriuli che le ha più volte replicate. Pre Toni ebbe un successo immediato : “al sbusave la television e al entrave tes cjasis come un amî e no pai cops come un lari o un imbroion”. Dopo l’ultima di queste, l’editore Santarossa, come aveva già fatto in passato, provò a richiedere a pre Toni, sempre fedele al friulano, di scrivere queste interviste in italiano e fortunatamente lo convinse. Quando mi telefonò per chiedermi che cosa ne pensavo gli manifestai il mio entusiasmo e mi misi subito al lavoro.
Nel libro si trovano molte delle idee e della storia di pre Toni. E’ una sintesi del suo pensiero e della sua fede.
In questo anno trascorso dalla sua morte sono stato colpito dal gran numero di persone che lo hanno conosciuto e dal gran numero di persone che lo avrebbero voluto conoscere. Attraverso il libro intervista molti hanno appreso che c’era un uomo “camminava con loro” e non se ne erano resi conto. Alcuni di questi hanno provato a cercarlo nei suoi libri. Qualcuno ne è rimasto affascinato, al “à cjapât gole”. Ecco quanto mi scriveva tre giorni fa una sua “ammiratrice” che ha cominciato a tradurre in italiano per le sue amiche gli scritti di pre Toni: “ Non so se approverebbe il mio lavoro, ma l’intento credo sia lodevole: cercare di renderlo comprensibile anche a chi non parla o legge il friulano. Poi dall’italiano lo si potrà tradurre in altre lingue, di modo che il suo patrimonio di pensiero non resti circoscritto ai pochi che leggono il friulano”.

Che cosa ci ha lasciato? Quali valori fondamentali, quali insegnamenti, orientamenti, consigli fanno parte della sua eredità? E questa è una eredità per tutti, anche se non si è friulani, anche se non si è credenti o la nostra fede convive con qualche dubbio o con qualche umana incoerenza? Sono convinto che il messaggio di pre Toni può aiutare chiunque cerchi e chiunque sia disposto ad ascoltare. Ritengo, pure io, che il suo pensiero vada divulgato e fatto conoscere traducendo, piano piano, tutto quello che ha scritto in friulano. Ci sono certe riflessioni e certe meditazioni che non possono essere destinate solo a chi si cimenta nella lettura del friulano!

Mi sono chiesto più volte la ragione di questo suo fascino trasversale, nel senso che attira persone di diverse età e cultura. Ho pensato che sia dipeso da più fattori. Ve ne propongo alcuni che ho colto ripensando ai nostri incontri e rimeditando su alcune parole che ci ha lasciato.
UOMO DI FEDE
E’ stato un uomo di fede. Una fede , dono di Dio, che si inserisce in una coscienza aperta, non scettica di fronte al mistero, consapevole dei propri limiti e di una dignità che la rende soggetto della storia ed oggetto dei disegni di Dio: pre Toni non è un uomo ad una dimensione! Agisce secondo un duplice orientamento: quello verticale che ti fa riflettere su Dio, sui valori spirituali, su quello che va oltre la finitezza ed i limiti umani :
Ogni tant cjalait il cîl. No par viodi ce tinp ch’al è, ma par savê là ch’o vin di rivâ. E copuartaisi conforme. (Sul at di voltâ pagjne p. 176)
e quello orizzontale che ti pone di fronte al mondo, all’altro, al male, al dolore. Un atteggiamento non facile e non privo di contraddizioni.
Il male e il dolore non sempre ci avvicina a Dio…Il male, qualunque male , non è necessariamente la strada che ci conduce a Dio. Potrebbe anche accadere che questa strada ci allontani da Lui, perché il male, il dolore, la morte sono in definitiva delle tentazioni (Olmis IV,p.23).
In questa riflessione , si può cogliere una fede vissuta in modo sereno e propositivo, con poche sicurezze e molte incertezze, insomma una fede umile e rasserenante, non pessimistica o tenebrosa.
Una fede a misura umana, alla nostra portata:
Sperâ simpri, ma jessi pronts ancje al piês. Meti in cont l’eventualitât negative, ma no pierdi mai la gole di vivi e di scombati. (Ricordo di Maria Moschioni)
No sai ce che l’avignî mi distinarà. O stoi però spietant simpri il meracul. Di imparâ a cjaminâ tal scûr. (De Profundis p. 113)

Per quanto la gente si aspetti dal prete certezze, lui non nasconde di avere molti dubbi e di essere incalzato dalle domande esistenziali. Non aveva paura ad esprimersi in modi non conformi, forse “anarchici”. Racconta di un uomo di Trelli “malât di timôr, tal stomi, che cuant che al veve dolôrs di cainâ, si meteve a blestemâ. “Mi pâr che a mi zovin”, -mi à confidât-. “ e alore blesteme, i ai rispuindût. Se diu al scolte lis tôs blestemis, al scoltarà ancje i tiei berlis.”
Per un momento immaginatevi di essere perplessi, incerti sulle vostre convinzioni, insicuri delle volte scelte e di incontrare un amico che , sinceramente, vi dice:
No sai se je fede o disperazion o fatalitât, ma la nestre vite e à di vê un sens , ancje se nô no rivin a capîlu. (De Profundis p. 67)
Sentiamo da Cristina Benedetti come affronta il “ mistero” che coinvolge ogni esperienza di fede: Ñ
La parola mistero non vuol dire che si tratta solo di una cosa profonda, di una cosa nascosta, ma di una cosa inaccessibile alla mente umana. Il mistero è come un iceberg. Si vede qualcosa sopra, ma la realtà più grande, più ricca, più stimolante, più vitale, rimane sommersa. La si può immaginare, ma non definire. E’ in profondità abissale, come quei pesci o mostri marini che vivono stabilmente nelle profondità dell’oceano, dove non riesce a penetrare nemmeno la luce. Quindi il mistero è insondabile, incomprensibile, indefinibile, inspiegabile, indecifrabile, altrimenti non sarebbe mistero. Posso, tuttavia, avvicinarmi ad esso non eliminando il mistero, ma cercando in che cosa il mistero aiuta me. Se capisco qualche cosa, il mistero ha senso; se resta assolutamente imperscrutabile, non ha senso.
Ovvio che non pretendo di arrivare a capire Dio, ma devo capire perché questo mistero mi viene rivelato e perché, se mi viene rivelato, può giovare a me. Ora io non pretendo di capire che cos’è la Trinità, perché non arriverò mai a capire come uno e tre possono andare d’accordo. Come per l’incarnazione e resurrezione, anche sulle tre persone di un’unica divinità hanno litigato per secoli in occidente e soprattutto in oriente! A me non interessa di andare a rompere il giocattolo per sapere come è fatto, come sono soliti fare i bambini. A me interessa chiedermi: questo mistero, questa verità insondabile che mi viene rivelata, mi serve e in che modo? Cosa mi giova? Questo non è tentare di spiegare il mistero, ma usare il mistero perché giovi a me. Che cosa posso portare, nella mia vita limitata, del mistero illimitato di Dio. Quindi il mio non è un tentativo sciocco e patetico di esaurire le profondità del mistero, ma il desiderio legittimo di usare, studiare, approfondire il mistero perché sia utile, positivo per la mia vita.
…Che cosa posso ca(r)pire io di questo grande mare di fuoco, che cosa posso portare via per accendere la mia testa e il mio cuore? In questo oceano di verità, di profondità, di sapienza, posso attingere un sorso per ristorare la mia sete? Come posso partecipare anch’io alla vita di Dio, alla sua trinità e unità, alla sua incarnazione?”. Davanti a Dio è opportuno abbassare la testa ed adorare, così come davanti alle cose di questo mondo è giusto aprire gli occhi, ragionare più che si può e non accettare alcun mistero. A tale proposito non capisco come molti del clero, parroci e vescovi, sappiano tutto (o quasi) sulla eternità, sul paradiso e l’inferno e non sanno, o non vogliono sapere quello che succede in comune, in regione, al parlamento, ma anche nel mondo dell’economia, delle grandi concentrazioni industriali, nei luoghi dove si progetta in bene e in male a livello planetario. Si commuovono davanti alle statue che piangono, ma non hanno tempo né sensibilità per guardare le lacrime reali e grandi come noci delle persone che gli stanno intorno! Tutto questo è alienante ed umiliante. Tornando a noi, non perdo quindi tempo a spiegare quello che non so e che nessuno sa. Mi interessa la Trinità, perché mi fa capire che Dio non è un solitario, indifferente, narcisista, uno scapolo autosufficiente e scostante, ma un Dio di relazione, un Dio che riceve e dà amore, un Dio dinamico, creativo, ricettivo. Non una statica eternità barbosa, ma una realtà vitale, relazionata e dinamica, un cerchio abbagliante di luce e di fuoco. In sintesi il mistero della Trinità è quello di riuscire a combinare l’unità con la diversità, l’uguaglianza con la differenza, la totalità con la parzialità. (“la Fatica di esser prete p.124-125-126)
In un commento al vangelo di Giovanni (20,19-23) che si leggeva a Pentecoste, a proposito dello Spirito Santo, si esprimeva così: “O vin discorût dal Spiritu Sant, ma ce robe esal - al domandarà plui di un-. Poben mi tocje rispuindi cun umiltât e cun scletece che al è un misteri par me e par ducj. La dutrine lu clame la tierce persone de Santissime Trinitât, atri misteri, e a dîs che al è l’Amôr che al compagne il Pari, il Fî, atri misteri ancjemò (Vanz. B.87) . Ognuna di queste sue considerazioni era espressa con modestia, con l’umità di chi sa che la mente umana non può arrivare a “comprendere” l’infinito. “Crodi nolè facil. E se si ûl rivâ a Diu cu la scjale dal resonament, si crevin i pecoi e si cole abas” (Vanz.B,p.90)
L’ “inumanament” di Dio sicuramente è il mistero che più attira e coinvolge pre Toni. Proprio sulla incarnazione di Dio, si fonda la sua fede e la sua speranza. Da qui parte anche la sua critica e trova fondamento, l’insistenza, quasi luterana, della sua polemica clericale.

Il misteri de incjarnazion nus dîs che Crist si è fat om e al à cjapât su di sé perfezionantlu, dut ce ch’al è di uman. Poben la glesie catoliche, soredut de ete de clericalizazion in ca (dibot di simpri) e presente come modei al popul cristian, parcè che tâi a son i sants, chei che in te lôr vite si son incjarnâts di mancul o adiriture disincjarnâts. No che no vedin lavorât a pro de umanitât o che si sedin ducj straneâts in tune solitudine mistiche, ma la lôr vite e je stade il contrari de incjarnazion, pal fat che àn rinunciât a un doprâ e gjoldi coret e sant e salutâr de cjarnalitât e sessualitât. (De Profundis p 131)


UOMO DI CHIESA
Questa espressione credo non abbia connotazioni positive. Un “uomo di chiesa” è un “baciapile” un “patafebancs”un fariseo che crede di essere ciò che non è. La più feroce critica che si può fare ad uno che frequenta la chiesa è quella di dirgli che nonostante il suo andare in chiesa, è peggio degli altri, cioè quelli che non frequentano. Da tale atteggiamento si è riusciti a formare la squadra, peraltro numerosa degli “atei devoti”, che senza religione o fede, pur continuando a vivere come se Dio non ci fosse, non osano negare apertamente l’esistenza di un “supremo” e da questa sensazione traggono sostentamento per delle regole etiche non sempre fondate.
In effetti è facile criticare non solo chi va in chiesa, ma anche chi, papa, vescovo, prete, la rappresenta . Pre Toni ha criticato molto, lucidamente, sarcasticamente, la “baracca” in cui si trovava. Tuttavia, le sue critiche, tanto precise quanto spietate, non l’hanno mai spinto ad abbandonarla. La sua sopportazione è stata eroica, incomprensibile, quasi irrazionale, anzi cristiana. Critica la chiesa che invece di testimoniare, diffondere, onorare il Vangelo se ne serve e lo usa... Eppure pre Toni non la lascia, non se ne va. Solo nella chiesa gli sembra possibile poter continuare a diffondere quella che una volta era considerata la “buona novella”.
Oggetto della sua critica, mi sento di doverlo sottolineare, non è la chiesa, quella che annuncia ai poveri la buona novella, ma il resto, la struttura, il potere che si autoalimenta, insomma il peggio della “baracca”, (il cardinate Poupard che si è prestato a celebrare le nozze miliardarie di un cinquattottene con una ventottenne! Per fare un es.). La chiesa di potere lo indigna, lo infastidisce. Si chiarisce bene la sua idea in questo brano che ci legge Cristina.
Io rimango dentro non per il vescovo. Non mi ha fatto niente, ma non merita la mia vita che è una cosa importante!
Io sto dentro perché c’è tanta gente che aspetta da me una parola e che allunga la mano per poter fare strada assieme, condividendo bene e male, gioie e rogne.
Sono dentro nella chiesa perché c’era mia nonna, c’era mia madre, che ha fatto del bene sempre, ed è vissuta come una martire tutta la vita, c’era mio padre, c’è tanta gente oggi, ci sono giovani, ci sono bravi uomini, che magari non vanno a messa ma portano la croce con grande dignità e disponibilità ed hanno un cuore buonissimo.
Io parteggio per questa gente qui e rimango fedele proprio per persone come queste!
Non è facile sintetizzare quello che la chiesa è. Si tratta, come dicevo, di una istituzione che accomuna differenti livelli di aderenti. Si va dalla semplice donna che vive di devozione e di rosari, ai papaveri della gerarchia strutturata dal minimo livello al picco più elevato: sono nella chiesa e tutti fanno chiesa, sebbene con compiti e funzioni diverse.
Vi si trova, lì dentro, una minoranza di quelli che comandano, senza mai dover obbedire, ed una stragrande maggioranza che deve obbedire, senza mai comandare.
In questo organismo, dove tutte le parti dovrebbero avere la stessa dignità, la testa pensa e decide per conto suo, indipendentemente dal corpo, ridotto ad esecutore passivo.
Il popolo di Dio è sparito, sono spariti da questo organismo pure quanti ogni giorno debbono affrontare le contraddizioni del vivere odierno. E’ rimasta, è vero, una congrega di gente che in un certo senso vive fuori dal mondo ed è legata ad una cultura venerabile, ma morta, a libri e documenti che anziché esaltarla la mortificano.
Io sto nella chiesa perché la chiesa è la barca che prende dentro tutta l’umanità. E’ l’arca di Noe, solo che l’arca di Noé era per quattro eletti e la chiesa deve essere per tutti! Quindi non una chiesa élitaria, ma una chiesa comunitaria, dove c’è posto per tutti.
Quando sento dire: “I gay no! Quelli che vivono insieme senza essere sposati, no! Quelli sposati civilmente no!, mi chiedo: ma di che chiesa parliamo?”.
Ma lui non è andato a cercare la pecorella smarrita senza paura che questa, riportata all’ovile , avrebbe potuto essere di cattivo esempio a quelle rimaste nella stalla? Non dovrebbe essere proprio la chiesa attraverso i suoi importanti esponenti, a dare una speranza, una mano, un rifugio a quelli che sono più esposti al freddo ed alla instabilità dei sentimenti? Dio ci ha regalato la chiesa come casa del perdono e della misericordia e non come tempio del diritto.
Dov’è il perdono, dov’è la grazia, dov’è la misericordia?.
Se non troviamo posto in chiesa per queste persone, dove dobbiamo andare a cercarlo, nelle caserme dismesse? Se anche la mia chiesa mi caccia come un lebbroso, dove posso andare? Se anche mio padre e mia madre mi mandano via, dove trovo rifugio, serenità, salvezza?
Quindi la chiesa dovrebbe chiedere, prima di tutto, non se sei sposato in chiesa o no, non se sei gay o no, ma: “Cosa posso fare, come posso aiutarti? Avvicinati, entra, bevi un sorso d’acqua, siediti qui. Vediamo se posso esserti di aiuto e, se non posso alleviare le tue pene, cercherò di condividere la tua sofferenza, anche se non concordo con le tue idee e scelte”. (la tafica di esser prete p.144-145)

Nelle sue polemiche ed ironiche osservazioni è anche autocritico:
Fintramai che o sin in cheste vite, nô predis, ma ancje i vescui e il pape, no sin de bande dai juscj ma dai pecjadôrs, no sin tra i beâts ma tra i biâts. (…et incarnatus est p. 192)
La chiesa resta il suo rifugio e spesso ripete, come fosse uno slogan di marketing che “in chiesa non si va per perdere, ma per guadagnare”.

UN UOMO
Un uomo con i dubbi esistenziali di tutti, con passioni e problemi che in questa pagina di intensa confessione così si si riassume:
Ho avuto la grazia di vivere tutte le stagioni della vita, senza saltarne alcuna o desiderare di cambiarne l’ordine. Avendo così goduto la giovinezza, non mi pesa per nulla la vecchiaia, sebbene sia carica di dolori e di croci: sono il colore dei suoi fiori!
Ho avuto amici e pseudo amici. I primi li ho cercati e mi hanno consolato; i secondi sono arrivati senza che li cercassi e li ho sopportati.
Attraverso la mia porta ed attraverso la porta della vita ho visto transitare tante persone che mi hanno spezzato il cuore.
Incline per natura a vivere da solo, ho cercato sempre di vivere in pace, prima che con il mondo, con me stesso. Ciò mi ha permesso di godere anche nella compagnia.
Non le ho indovinate tutte, così come non le ho sbagliate tutte. Ho avuto la fortuna di imparare anche dagli sbagli e dalle esperienze negative.
Molte volte mi son trovato senza soldi e salute, ma Dio mi ha ricompensato con la speranza. Un regalo per i poveri che è negato ai ricchi.
C’è stato un tempo della mia vita in cui avevo il terrore della morte. Mi è capitato quando ero ancora giovane ed avevo più parenti ed amici di qua che di là. Ora il pensiero della morte mi fa meno paura. Quando si è giovani non si ha nemmeno la voglia di riposare; ora invece godo i momenti di riposo e credo di comprendere meglio il significato di un riposo eterno.
Nella mia vita non ho mai fatto progetti. Per questo ho affrontato sentieri che mai avrei pensato di percorrere ed ho raggiunto mete che mai avrei sospettato di poter raggiungere. Certamente non mi metto a fare progetti ora!
Ascolto spesso tante persone che si chiedono se il nascere sia una fortuna oppure una disgrazia. Se porsi domande è giusto, non è giusto vivere facendosi domande in continuazione.
La vita sarà sempre un mistero: fortuna e condanna contemporaneamente. Quando nasceva uno dei miei cagnolini la prima cosa che mi chiedevo : “Chissà se oggi ha guadagnato o ha perso?” . Era troppo impegnato a guardare i colori e il muso di sua madre per seguirmi in queste domande insensate.
Come sono arrivato qui senza conoscere né la strada, né il tempo, né altro, arriverò pure di là. Perché non siamo noi a guidare, ma è un’altra mano che ci conduce. Alla fine non siamo noi a scegliere, anche se ciò ci sembra verosimile. Che cosa devo fare? Fidarmi di Lui e vivere in pace, sapendo che ogni giornata, anche se dovesse essere l’ultima, è sempre un miracolo.
Ho avuto anche fede, ma non troppa! Mi è piaciuto essere curioso delle cose del mondo, ma sulle cose di Dio ho preferito il mistero ed il rispetto. ( la fatica di esser prete p.57)
Ancora una piccola citazione sulla cultura:
La salût e je alc di plui larc e profont dal jessi a puest cul colesterolo e cui trigliceridis. Ancje il purcit, biât, al sclope di salût. Par chel o dîs che dongje des trasfusions dal sanc a coventin altris trasfusions. Par esempi trasfusions di culture. Un popul che nol rive a meti, in tal cjaruç incolm de spese, ancje un libri o che nol à timp di cognossi, stimâ, tramandâ la so culture, storie, lenghe, esperienze, nol è san o al è san dome cul cuarp e duncje in pericul di jessi doprât come un mus, che si lu preferis san. Un popul che nol dopre il so cjâf, al ven doprât. (Olmis II p. 14) Ñ
Di certo pre Toni non avrebbe immaginato che un suo libro sarebbe finito negli scaffali del supermercato dove più di qualcuno lo avrà messo nel carrello della spesa! Ho scoperto un uomo che si interroga, dubita, vive. Un uomo che si faceva domande più sulle ascisse, in orizzontale che sulla verticale, troppo a rischio di scosse… Un uomo che ci invita a vivere qui, oggi, tutte le nostre possibilità e responsabilità.
Nel suo messaggio ci sono principi di vita , insegnamenti, indicazioni per essere ed esistere con dignità e obiettivi.
Uomo di fede, uomo di chiesa, uomo di compagnia….. un uomo che sapeva leggere il tuo intimo senza che tu parlassi e ti era subito amico sincero, schietto, vero.
Vissuto nel nostro spazio, nel nostro tempo e “nella consapevolezza di Dio”-

BUTTRIO GIUGNO 2008